Storie di ricerca

Storie di fine vita: quale equilibrio tra scienza e diritto?

L’incidenza delle scienze mediche sul ritmo biologico umano si traduce in interrogativi a sfondo scientifico che coinvolgono aspetti giuridici, etici, politici e sociali e che conducono in molti casi a una paralisi normativa. La ragionevolezza scientifica è alla base del superamento di tale paralisi.
Il racconto inserisce nella Proposta di Lettura Magnifiche presenze. Visioni dantesche nella ricerca di oggi. La scelta dell'estratto della Divina Commedia e il relativo commento sono a cura del professor Donato Pirovano e del Comitato studentesco Per correr miglior acque.

Ma io perché venirvi? O chi ’l concede?
Io non Enea, io non Paulo sono:
me degno a ciò né io né altri ’l crede.
Per che, se del venire io m’abbandono,
temo che la venuta non sia folle.
Se’ savio; intendi me’ ch’i’ non ragiono.

(Inferno II, 31-36)

Dante viene qui invitato da Virgilio a superare i limiti del mondo conosciuto, intraprendendo il viaggio nel mondo dell’aldilà, che fino ad allora è stato compiuto unicamente dall’eroe Enea e dall’apostolo San Paolo. Nasce quindi in Dante, che ha paura di peccare di «follia», cioè di superbia, un fortissimo dubbio riguardo a ciò che è concesso all’uomo e ciò che non lo è. Allo stesso modo la scienza medica, in continua evoluzione, ambisce al superamento dei limiti della conoscenza umana, all’approdo di nuove scoperte, permettendo all’uomo di sopravvivere in condizioni che fino a poco prima non sarebbero state possibili. Ne conseguono interrogativi etici a cui le scienze giuridiche sono chiamate a rispondere per "stare al passo", continuando a fornire strumenti prezioso del vivere civile.

STORIE DI FINE VITA: QUALE EQUILIBRIO TRA SCIENZA E DIRITTO?

Il 17 gennaio 1992, di ritorno da una serata con gli amici, Eluana Englaro è alla guida della sua auto sulla strada provinciale che collega Calco a Lecco. L’asfalto ghiacciato le fa perdere il controllo e il veicolo slitta fuori strada, contro un albero. L’incidente le causa danni gravissimi al cervello e una frattura alla colonna vertebrale. Quando viene raggiunta dai medici, Eluana è già in coma e ci rimarrà fino al 2009. È infatti il 9 febbraio 2009 quando - dopo 11 anni di processi, 15 sentenze della magistratura italiana, una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU) e l’autorizzazione a procedere della Corte d’Appello di Milano - Eluana muore in seguito al distacco del sondino naso-gastrico che ne teneva in vita il corpo. Ha 39 anni e ne sono passati 17 dal giorno dell’incidente.

Siamo in Italia ma il dibattito sul fine vita è complesso anche a livello internazionale. Quando la signora Pretty, malata di SLA e intenzionata ad accedere al suicidio assistito, chiede la garanzia di impunità per il marito che le avrebbe dato aiuto, riceve un rifiuto da parte della Corte inglese. La stessa CEDU, investita del caso, rigetta la richiesta: il diritto alla vita, dicono i giudici, non comprende un diritto alla morte.

L’incidenza delle scienze mediche sul ritmo biologico umano consente ad alcuni pazienti in condizioni gravi di rimanere in vita per giorni, mesi o in qualche caso anni attraverso l’uso di macchinari che suppliscono, ma non restituiscono, una sufficienza di funzioni vitali. L’eco di tale impatto si traduce in interrogativi a sfondo scientifico e sanitario che coinvolgono aspetti giuridici, etici, politici, sociali e culturali e che, uniti alla diversa velocità di avanzamento tra diritto e scienza, conducono in molti casi a una paralisi normativa.

Di fronte alla a-sincronia dei ritmi coinvolti e alla mancanza di un consenso generale, le Corti internazionali tendono infatti a lasciare un ampio margine di discrezionalità ai singoli Stati nell’adozione di leggi e misure sul fine vita. Dal canto loro, tuttavia, i decisori politici e le corti nazionali preferiscono spesso assecondare il dibattito etico-religioso su tali questioni, arrivando a prediligere misure di divieto anche in assenza di evidenza scientifica.

Si rende quindi necessario un rinnovato ragionamento che, tenendo conto del progresso biomedico e dello sviluppo sociale, contrapponga alla stagnazione del diritto un diritto vivente, coerente con il ritmo, le implicazioni e lo sviluppo della scienza e della tecnologia.

Il mio dottorato di ricerca mira a individuare gli strumenti necessari per garantire che il processo decisionale di ogni Stato sia adeguatamente basato su evidenza scientifica. L’idea di approfondire questo tema, come nel caso della collega Tullia Penna, è nata dallo studio della legge italiana n. 40 del 2004 sulla fecondazione assistita. Legge che vieta, tra le altre cose, la ricerca scientifica su embrioni e su cellule staminali estratte (in Italia) da embrioni. In queste cellule, chiamate totipotenti perché possono essere “trasformate” in ogni altra cellula del corpo, risiede la possibilità concreta di sviluppare terapie efficaci per la cura di malattie che sono in molti casi ancora causa di morte o dolore intollerabile. Penso per esempio ai tumori o malattie neurodegenerative come il Parkinson e l’Alzheimer. Nel prediligere la tutela dell’embrione, il divieto italiano mette di fatto un ostacolo alla possibilità di salvare la vita a persone malate o di alleviare le loro sofferenze attraverso la scoperta di nuove cure.

Da qui, la domanda: fino a che punto e su quali basi uno Stato può esercitare il proprio margine di discrezionalità nelle questioni che coinvolgono la biologia e il diritto?
Il ragionamento è ampio e coinvolge una matassa di profili nel rapporto tra diritto e scienza. L’ambizione, tuttavia, è di provare a suggerire come venirne a capo.